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La fede di Israele e le attese universalistiche di alcuni credenti costituivano delle premesse alla missione: indispensabili certamente, ma soltanto premesse. Senza la figura di Gesù Cristo non si sarebbe mai giunti ad una vera missione universale.
È la sua figura, dunque, il suo modo di presentarsi e la sua metodologia che occupa adesso la nostra attenzione: in Lui, infatti, sappiamo di trovare l'origine della missione apostolica (cf A.Vanhoye, "Le origini della missione apostolica nel Nuovo Testamento", in: La Civiltà Cattolica 141 (1990) 544-558).
L'idea abituale di missionario ci porta a pensare ad una persona che lascia la propria terra per andare in paesi lontani ad annunciare e testimoniare la propria fede a popoli che ancora non la conoscono. In questo senso Gesù non è stato missionario. Egli è sempre rimasto nel suo paese fra i suoi connazionali e non ha espresso la consapevolezza di voler personalmente compiere la sua missione fra le nazioni pagane.
Gli è accaduto qualche volta di uscire dal territorio di Israele, ma in quei casi non predicava e cercava piuttosto di passare inosservato (Mc 7,24: "Andò nella regione di Tiro e di Sidone e non voleva che nessuno lo sapesse"). Un giorno, mentre si trovava nella regione di Tiro e di Sidone, secondo la narrazione di Matteo, Gesù dichiarò ai suoi discepoli: "Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele" (Mt 15,24). Una frase simile esclude decisamente un impegno di missione all'estero. In un'altra occasione (Mt 23,15) Gesù, rimproverando scribi e farisei, fa allusione al loro grande impegno per fare un solo proselito e non esprime affatto l'intenzione di imitarli.
Tuttavia Gesù si è mostrato cosciente di un'urgenza missionaria e ha vissuto nella propria vita l'impegno di raggiungere le persone e di annunciare loro l'intervento di Dio. A differenza di Giovanni Battista, Gesù ha concepito la sua missione evangelizzatrice in modo molto dinamico.
I racconti evangelici ci presentano il Battista mentre nel deserto predica un battesimo di conversione e ci riferiscono che la gente accorreva a lui per sottoporsi al suo rito penitenziale (Mt, 3,1.5; Mc 1,5; Lc 3,7; Gv 3,23): egli resta sempre nello stesso luogo e non si sposta affatto; sono le folle che si muovono ed accorrono nel deserto di Giuda per incontrare questo nuovo profeta.
Gesù, invece, sebbene abbia iniziato anch'egli nel deserto, adotta uno stile di vita e di ministero completamente diverso: egli va dove vive la gente. Abbandona la piccola Nazaret, per stabilirsi a Cafarnao, un autentico porto di mare, cittadina ricca di movimento e visitata da un gran numero di persone (Mt 4,13; Mc 1,21). Ed inizia la sua predicazione proprio là dove la gente si riunisce abitualmente: al sabato in sinagoga (Mc 1,21). Ha molto successo, tutti lo cercano: Cafarnao diventa ben presto un polo di attrazione, ma non si trasforma in un centro religioso. Gesù è chiaro nel suo programma ministeriale: "Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là: per questo infatti sono venuto!" (Mc 1,38). Le folle rischiano di diventare possessive: quando lo raggiungono, vogliono trattenerlo perché non se ne vada via da loro; ma Gesù è sicuro e irremovibile: "Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche alle altre città: per questo sono stato mandato" (Lc 4,43).
Gesù è cosciente di essere stato mandato, quindi di avere una missione: quella di predicare e di annunciare il regno di Dio. Tale missione egli la svolge in modo itinerante, accostando la gente proprio là dove abita, senza aspettare che accorra da lui. Così si esprimono i sommari della sua attività: "Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando la buona notizia del Regno e curando ogni malattia e infermità" (Mt 9,35).
A parte il modo, è importante il contenuto del ministero di Gesù, cioè l'oggetto della sua predicazione. L'evangelista Marco presenta il messaggio di Gesù con una frase sintetica che riassume il contenuto della sua missione: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1,15).
L'annuncio fondamentale di Gesù è dunque la vicinanza del Regno di Dio. L'attesa di Israele sta per essere soddisfatta; l'intervento di Dio, a lungo aspettato ed invocato, si sta realizzando. Gesù annuncia che Dio, in quanto Re dell'universo, entra direttamente nella storia dell'uomo e la trasforma dal profondo; nella persona stessa di Gesù Dio è all'opera per cambiare il mondo. Questa è la buona notizia. Di fronte ad essa ognuno deve cambiare mentalità, fidarsi di questa parola ed accoglierla con entusiasmo.
I gesti prodigiosi di benevolenza che Gesù compie nei confronti di chi è oppresso dal male e dalle malattie sono i segni dell'irruzione del Regno. Ai messaggeri del Battista, infatti, viene dato l'incarico di riferire ciò che essi stessi hanno visto, cioè la realizzazione delle opere straordinarie annunciate dall'antico profeta (Gesù cita le espressioni di uno splendido poema apocalittico contenuto nel libro di Isaia: Is 35,5-6; cfr. Mt 11,2-6 e Lc 7,18-23) come la manifestazione gloriosa del giorno in cui Dio avrebbe compiuto il suo intervento definitivo. I miracoli sono dunque il segno che il tempo è compiuto.
Il messaggio di Gesù e le sue opere mostrano l'universale apertura dell'intervento divino ed il suo comportamento rivela con chiarezza una volontà di comunicazione e di comunione con tutti. A differenza dei farisei che predicano e difendono un atteggiamento religioso all'insegna della separazione, Gesù abbatte coraggiosamente ogni tipo di barriera: accoglie piccoli e grandi, poveri e ricchi, malati, lebbrosi e indemoniati, stranieri e persone di cattiva reputazione.
L'evangelista Matteo, presentando in sintesi il ministero di Gesù, cita due volte una frase tratta dai poemi dell'AT che presentano la figura del "Servo di JHWH" e con tale sistema egli intende mostrare come la missione di Gesù sia il compimento dell'antica profezia.
Nella sezione dei miracoli Matteo inserisce questo breve sommario: "Venuta la sera gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:
'Egli ha preso le nostre infermità
e si è addossato le nostre malattiè "(Mt 8,16-17; citazione di Is
53,4).
Dato che sono i malati ad aver bisogno del medico ed il medico è all'opera, i miracoli sono dunque i segni della redenzione e nello stesso tempo annunziano i tempi nuovi del dialogo tra Dio e l'uomo. La figura del "Servo" mette in risalto la solidarietà di Gesù con i malati e i peccatori, la sua con-divisione e la sua com-passione: autentico missionario, egli si è messo dalla parte degli ultimi e li ha liberati soffrendo con loro.
Poco più avanti Matteo ritorna su questo tema. In un momento critico della sua missione, mentre i farisei tengono consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo, Gesù si ritira in disparte; la folla tuttavia lo segue "ed egli guarì tutti, ordinando loro di non divulgarlo, perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta Isaia:
'Ecco il mio servo che io ho scelto;
il mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto.
Porrò il mio spirito sopra di lui
e annunzierà la giustizia alle genti.
Non contenderà, né griderà,
né si udrà sulle piazze la sua voce.
La canna infranta non spezzerà,
non spegnerà il lucignolo fumigante,
finché abbia fatto trionfare la giustizia;
nel suo nome spereranno le genti"
(Mt 12,15-21; citazione di Is 42,1-4).
La lunga citazione descrive ciò che Gesù, Servo di Dio, non intende fare: anziché presentarsi potente e battagliero, prestigioso e influente, preferisce mostrarsi dolce e accogliente con tutti; non vuole una vittoria conquistata con ingente quantità di mezzi, ma un'accoglienza ottenuta con la sola forza dell'amore. Il suo stile è quello della valorizzazione di ogni persona, anche di chi è debole e insignificante come una canna spezzata o uno stoppino che sta per spegnersi. Il riconoscimento del valore positivo che è presente in ogni persona è il metodo missionario di Gesù (cf M.Orsatti, "Lo stile e il metodo missionario di Gesù", in: Parole di Vita 35 (1990) 166-173): in questo senso egli è passato facendo del bene a tutti (At 10,38) e costituendo la migliore delle basi per la missione apostolica che, dopo la Pasqua, sarà rivolta a tutte le genti.
Una iniziativa di Gesù costituì una preparazione complementare. Sin dagli inizi, sebbene molta gente accorresse a lui e lo seguisse, egli aveva scelto un piccolo gruppo di persone che condividessero la sua vita più da vicino, un gruppo cioè di discepoli da associare al suo ministero itinerante (cf M.Adinolfi, L'apostolato dei Dodici nella vita di Gesù, Cinisello Balsamo (MI) 1985). Questa iniziativa costituisce una base fondamentale per la continuità della missione da Gesù alla Chiesa e permette lo stretto collegamento fra l'opera compiuta da Gesù prima della passione e l'impegno missionario dei discepoli dopo la Pasqua.
Tutti gli evangelisti raccontano l'iniziativa presa da Gesù nel chiamare i suoi discepoli (Mt 4,18-22; Mc 1,16-20; Lc 5,1-11; Gv 1,43): a differenza dei maestri di Israele che erano scelti da chi intendeva mettersi alla loro scuola, il rabbì di Nazaret è lui a scegliere liberamente il suo gruppo e chiama ciascuno di loro con decisione e affetto.
Qualche tempo dopo, all'interno della cerchia dei discepoli, Gesù compie una ulteriore scelta e costituisce il gruppo dei Dodici. L'evangelista Marco racconta con particolare attenzione questo fondamentale evento (Mc 3,13-19). "Gesù salì sul monte", compiendo il gesto simbolico che evoca l'incontro con Dio ed assumendo il ruolo del Signore che opera la rivelazione; "chiamò a sè quelli che voleva", cioè, con un modo di dire semitico, quelli a cui voleva bene; "ed essi andarono da lui". Al verbo imperfetto che indica la durata della benevolenza si contrappone ora un passato remoto che dice l'evento preciso e storico: "Costituì dodici"; la frase è secca ed essenziale, il verbo utilizzato in greco è il verbo "fare" che indica il gesto creatore. Con tale formula Marco presenta Gesù mentre crea una realtà nuova ed intende affermare che la vocazione dei dodici "Ha un carattere istituzionale. Nel pensiero di Gesù, la vocazione è destinata a durare. I dodici formano un gruppo organizzato" (C.Romaniuk, Il sacerdozio nel Nuovo Testamento, Bologna 1970, p.85).
Lo scopo di questa istituzione è, secondo Marco, duplice: prima di tutto i dodici sono chiamati a stare con Gesù e poi saranno incaricati di predicare e di cacciare i demoni. La compresenza di una duplice finalità è molto importante: la predicazione apostolica, cioè la continuazione della missione stessa di Gesù, può sussistere solo se i predicatori hanno condiviso la vita con il Maestro; anzi, proprio dall' "essere-con" Gesù nasce l'impegno missionario. La comunione con Gesù e la missione da parte di Gesù sono strettamente collegate: la missione qualifica la comunione come un fatto non privato e soltanto la comunione con Gesù rende capaci di continuare la sua opera (cf K.Stock, Le pericopi sui Dodici nel Vangelo di San Marco, Roma 1983, pp.7-57).
Nel racconto parallelo di Luca, il terzo evangelista aggiunge un particolare, annotando che Gesù stesso diede loro il nome di "apostoli" (Lc 6,13). Il termine greco "apòstolos" significa propriamente "inviato" e rispecchia, quindi, perfettamente la finalità che Gesù ha pensato per loro. Il corrispondente ebraico è il termine "shaliah" ed è possibile che Gesù abbia usato questo titolo per caratterizzare il gruppo dei discepoli più vicini a sè: dunque i "missionari" per eccellenza. È certo comunque che il termine "apostolo", poco utilizzato nella letteratura greca, è diventato una parola di primaria importanza nel vocabolario del NT.
L'intenzione di "inviare" i Dodici, espressa al momento della loro istituzione, viene attuata da Gesù qualche tempo dopo. È un dato sicurissimo della tradizione evangelica il fatto che Gesù abbia mandato gli apostoli in missione prima della sua Pasqua: forse non fu un evento unico, ma potè tranquillamente ripetersi più volte in diverse circostanze , divenendo quasi un metodo pastorale. Le tradizioni sinottiche conservano istruzioni molto arcaiche fornite da Gesù in occasione del primo invio: è chiaro infatti che quell'esperienza assunse per gli apostoli un particolare risalto e fu conservata nella memoria e tramandata alle nuove generazioni, anche se ormai gli eventi pasquali avevano cambiato radicalmente la situazione (cf V.Fusco, "Dalla missione di Galilea alla missione universale. La tradizione del discorso missionario (Mt 9,35-10,42; Mc 6,7-13; Lc 9,1-6; 10,1-16)", in: Ricerche storico bibliche 2 (1990) 101-125).
Esaminiamo dapprima gli elementi comuni di questa tradizione. Si tratta di un discorso missionario che offre direttive di comportamento secondo le varie fasi dell'attività, cioè la partenza, l'arrivo in una determinata località e poi la partenza da essa. Gesù offre precise direttive sull'equipaggiamento, con l'esclusione di ogni scorta, direttive sull'alloggio, con la proibizione di cambiarlo, ed infine norme di comportamento in caso di accoglienza negativa, col gesto di scuotere via la polvere.
Agli inviati viene prescritta una serie di gesti e comportamenti alquanto vistosi e sorprendenti: evidentemente riflettono la predilezione di Gesù per un linguaggio simbolico e gestuale e quindi vogliono di sicuro significare qualche cosa. Necessariamente, però, devono essere rispettate alla lettera. E nella situazione storica di Gesù erano praticabili. Esse presuppongono, infatti, un territorio ben preciso: prevalentemente rurale, disseminato di piccoli centri abitati non molto distanti l'uno dall'altro, tra i quali ci si può spostare a piccole tappe, sempre a piedi, puntando esclusivamente sull'ospitalità, senza bisogno di rifocillarsi prima di giungere a destinazione.
Il comportamento richiesto ai missionari diventa una predicazione vivente e si inserisce nell'annuncio escatologico del Regno, cioè nella proclamazione dell'intervento definitivo di Dio: si passa dal futuro al presente; i profeti annunciavano la grande mietitura che Dio avrebbe compiuto "in quel giorno" ed ora gli apostoli sono gli operai che la realizzano (Mt 9,37-38 e Lc 10,2; per l'immagine della mietitura vedi Gl 4,13; Ap 14,14-16; Gv 4,35-38). Essi dunque devono rappresentare drammaticamente l'urgenza della missione e l'assoluta fiducia in Dio che realizza il suo Regno. Le direttive sull'equipaggiamento, infatti, non prevedono la rinuncia al superfluo, ma a ciò che è più necessario; chiedono di far a meno proprio di quei beni che potrebbero essere d'aiuto alla missione. Dal punto di vista di efficienza operativa, i sandali, il bastone, la borsa e la bisaccia con un po' di cibo, non sarebbero affatto un impedimento, anzi potrebbero aiutare ad andare più lontano, guadagnare tempo, raggiungere più gente.
Evidentemente nella missione di Galilea Gesù voleva che i suoi missionari fossero un "segno". La proibizione ha sempre per oggetto qualcosa che ci si prepara adesso per poterne disporre all'occorrenza in futuro: la bisaccia è cibo per il domani, la seconda tunica è un vestito di riserva, sandali e bastoni sono una difesa preventiva contro le insidie che potrebbero presentarsi lungo il cammino, il denaro, infine, è potenzialità di beni e di servizi per qualunque evenienza. Gesù non offre quindi norme di penitenza, ma richiede un atteggiamento significativo di fiducia assoluta: Dio ha cura dei suoi inviati ed essi dimostrano coi fatti di fidarsi, perché la predicazione del Vangelo è "cosa sua". La missione dunque è un evento "soprannaturale".
Questo prezioso insegnamento di Gesù è stato conservato nella comunità cristiana, ma con intelligenza e creatività è stato adattato alle nuove situazioni storiche che si erano venute a creare dopo la Pasqua con la missione universale. Ogni evangelista ha quindi lasciato tracce del proprio lavoro redazionale nel riportare il discorso missionario di Gesù.
Matteo precisa che la missione di Galilea non era universale, come quella della Chiesa; si trattava solo di una partecipazione al ministero storico di Gesù, anticipo della futura apertura a tutte le genti. Il Maestro infatti raccomanda loro: "Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele" (Mt 9,37-38 e Lc 10,2; per l'immagine della mietitura vedi Gl 4,13; Ap 14,14-16; Gv 4,35-38). Tuttavia Matteo non vuole relegare nel passato questo insegnamento missionario di Gesù: anzi opera numerose aggiunte e modifiche proprio per richiamare la sua comunità alla necessità di vivere lo spirito e la qualità della missione voluta da Gesù (cf M.Laconi, "Il discorso missionario (Mt 10)", in: Parola Spirito e Vita 16 (1987) 115-127).
Marco sembra più attento al fatto che non alle modalità e presenta la missione di Galilea come il fondamento e l'immagine della missione cristiana. La sua presentazione risente dell'ambiente ecclesiale in cui la tradizione era viva; osserviamo solo due particolari: Marco modera il rigore dell'equipaggiamento e permette di portare bastone e sandali; aggiunge inoltre un particolare di tipo liturgico ecclesiale, cioè l'osservazione che gli apostoli "ungevano di olio molti infermi e li guarivano" (Mc 6,13).
Luca, infine, opera un ritocco molto vistoso, parlando di due distinte missioni: la prima volta sono inviati i Dodici (Lc 9,1-6), la seconda volta sono mandati altri settantadue (Gli antichi manoscritti non sono concordi su questo numero: alcuni dicono 70, altri 72; gli studiosi non trovano argomenti sufficienti per stabilire quale dei due sia quello originale e le varie traduzioni oscillano fra l'uno e l'altro) discepoli (Lc 10,1-16). Quest'ultimo brano lucano non contiene materiale nuovo; l'evangelista ha soltano diviso e in parte ripetuto l'insegnamento tradizionale in due distinte occasioni di missione. Forse, richiamandosi al testo di Genesi 10, la famosa tavola dei 70 (in ebraico) o 72 (in greco) popoli, Luca ha voluto suggerire, senza ancora affermarla, la futura estensione missionaria a tutti i popoli della terra, includendo nel numero dei missionari, in modo simbolico, non solo i Dodici, ma anche tutte le altre persone che nella Chiesa avrebbero svolto una missione evangelizzatrice. O forse, più semplicemente, ha presentato questi discepoli come araldi e banditori, che precedono Gesù nel viaggio verso Gerusalemme, per proclamare il carattere ufficiale e solenne di quel viaggio. In ogni caso Luca considera espressamente le prescrizioni di Gesù per la missione di Galilea come legate a quella fase storica, non più da osservare alla lettera nella missione cristiana; durante l'ultima cena, infatti, Gesù revoca le norme precedenti ed introduce la novità postpasquale. Egli domanda ai discepoli: "Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?". Risposero: "Nulla". Ed egli soggiunse: "Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una" (Lc 22,35-36).
Dopo gli eventi pasquali la missione cambia profondamente: il compimento del mistero di Dio e della redenzione segna una novità assoluta nell'esistenza umana, quindi anche nell'apertura missionaria. La morte di Gesù ha avuto come effetto di abolire i limiti della sua missione terrena e di rendere possibile ed effettiva la missione apostolica.
"Questo punto importante della storia della salvezza è raramente percepito, ci sembra, con la chiarezza desiderabile. Si proietta anacronisticamente sulla vita pubblica di Gesù l'universalismo che è potuto esistere solo dopo la sua morte. Si ottiene così una impressione di continuità. La morte sembra un breve incidente di percorso, subito riparato dalla risurrezione. Non ci si rende conto dell'efficacia della morte di Gesù per il superamento delle strettezze anteriori" (A.Vanhoye, "Le origini...", art.cit., p.550). In realtà la missione diventa possibile solo perché il Cristo è morto e risorto; non si tratta quindi solo di un cambiamento di modalità o di dimensioni; la novità essenziale è il dono pasquale dell'incontro reale con Dio.
L'evangelista Giovanni è il grande teologo della missione, perché più di ogni altro ha ricercato ed approfondito il senso della persona di Gesù e della sua opera (cf J.Radermakers, "Mission et apostolat dans l'Evangile Joannique", in: Studia Evangelica II, Berlino 1964, 100-121).
Nel quarto Vangelo Gesù esprime continuamente la coscienza che egli ha di essere stato inviato in missione e afferma l'origine divina di tale missione, chiamando il Padre "Colui che mi ha mandato". Il primo grande insegnamento è proprio questo: Gesù è il missionario del Padre, non è venuto da sè (7,28), è stato mandato nel mondo dal Padre perché il mondo trovi la salvezza per mezzo di lui (3,17); suo unico desiderio è fare la volontà di colui che lo ha mandato e compiere la sua opera (4,34); per questo motivo il Figlio non è mai solo (8,16.29) e, di conseguenza, da parte dei credenti, chi onora il Figlio onora il Padre che lo ha mandato (5,23), chi crede in Gesù crede nel Padre (12,44), chi vede lui vede il Padre (14,7-9). Giovanni, dunque, insegna con chiarezza che Gesù è il Rivelatore del Padre: è venuto nel mondo perché Dio ha tanto amato il mondo ed ha il compito di far conoscere attraverso le sue opere e le sue parole, soprattutto attraverso la sua persona, il volto di Dio. Far conoscere l'amore di Dio agli uomini significa renderli partecipi della comunione trinitaria, renderli capaci di rispondere con l'amore all'amore divino. Questa è la missione di Gesù: la salvezza che egli opera è il dono ad ogni uomo della sua stessa Vita.
È più che evidente l'estensione universale di questa missione. Ma alcuni episodi del vangelo giovanneo mettono in chiara luce l'apertura cosmica dell'evento messianico. Dice l'evangelista che Gesù "doveva" passare per la Samaria (4,4): non è certo un dovere geografico, giacché esistevano altre strade, più comode e sicure; si tratta dunque di un dovere teologico: il piano universale della salvezza è anticipato dunque dal ministero di Gesù fra gli "eretici" samaritani. Ogni barriera ideologica e razziale è abbattuta, la simbolica messe è pronta per la mietitura e quegli stranieri, diversamente dai giudei, non solo lo accolgono, ma lo riconoscono anche come "il salvatore del mondo".
Il mondo intero è destinatario di questa salvezza: la vita eterna è promessa a "chiunque" crede in lui (3,16), senza distinzione fra giudei o pagani. Gesù, buon pastore, ha altre pecore che non sono dell'ovile di Israele e anche queste egli "deve" condurre: ascolteranno la sua voce e diventeranno un solo gregge sotto un solo pastore (10,16).
Resta vero tuttavia che durante il tempo della sua vita terrena, Gesù non è andato a predicare fuori di Israele per convertire i pagani. I suoi avversari avevano ipotizzato che si sarebbe recato all'estero per ammaestrare i greci (7,35), ma la supposizione era senza fondamento. Anzi quando un giorno alcuni greci presenti a Gerusalemme esprimono a Filippo il desiderio di vedere Gesù (12,22), egli non li accontenta ed inizia invece un discorso, apparentemente strano, sulla necessità della sua morte: "Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (12,24). Il contesto ci aiuta a comprendere il senso di queste parole: l'incontro coi greci sarebbe solo un evento esteriore; essi non lo possono incontrare se non dopo il mistero della sua morte. Prima della morte il chicco di grano rimane solo. Nel mistero della morte, invece, si realizza l'autentica possibilità dell'incontro; Gesù continua: "Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me" (12,32).
Sulla croce Gesù è re: il principe di questo mondo è gettato fuori (12,31) ed egli è elevato al trono. In quell'atto supremo di amore al Padre si manifesta la Gloria di Dio, cioè la sua presenza potente ed operante, e si realizza il raduno del popolo messianico. Ogni uomo è attirato a Dio e riceve dal Re Messia il dono per eccellenza: il dono della vita, che consiste nella consegna dello Spirito (19,30). La madre ed il discepolo, rappresentanti di tutta l'umanità, ricevono infatti lo Spirito di Dio, la sua stessa vita divina (cf I.De La Potterie, "Gesù e lo Spirito secondo il Vangelo di Giovanni", in: Studi di Cristologia giovannea, Genova 1986, pp.279-289).
Durante la festa delle capanne Gesù aveva solennemente annunziato il dono dell'acqua vera e l'evangelista aveva commentato: "Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato" (7,37-39). Finché Gesù non manifesta la gloria di Dio nella propria morte, nel mondo non c'è lo Spirito: lo scopo della missione di Gesù è dunque mandare lo Spirito. La promessa del Paraclito (lo Spirito consolatore) domina infatti i discorsi dell'ultima cena (Gv 14,16-17.26; 15,26-27; 16,7-8.12-14) e spiega il senso della morte di Gesù: "È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò" (16,7).
La missione di Gesù si compie con la missione dello Spirito Santo (cf G.Ghiberti, "Missione di Gesù e dei discepoli nel Quarto Vangelo", in: Ricerche storico bibliche 2 (1990) 185-200): sulla croce il Cristo "consegna lo Spirito" ed il giorno di Pasqua nel cenacolo, alitando sui discepoli, dice loro: "Ricevete lo Spirito Santo" (20,22). Gesù ripete simbolicamente il gesto del Creatore che aveva comunicato all'Uomo il suo soffio vitale; nell'evento pasquale si realizza una nuova creazione, il Respiro stesso di Dio, il suo Spirito, viene donato agli uomini: essi entrano dunque in reale comunione di vita con Dio. Il dono dello Spirito rende possibile, finalmente, la missione della Chiesa: solo dopo la Pasqua di Gesù ed il dono dello Spirito può iniziare la missione degli apostoli. A loro, infatti, il Cristo risorto affida l'incarico nuovo: "Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi" (20,21). Da questo momento i discepoli di Gesù hanno qualche cosa da dare al mondo: hanno da dare ciò che essi stessi hanno ricenuto (cf R.Schnackenburg, "L'idea di missione del vangelo di Giovanni nell'orizzonte attuale", in: Il vangelo di Giovanni, IV: Esegesi ed excursus integrativi, Brescia 1987, pp. 71-87).
Oltre a Giovanni, anche gli altri evangelisti presentano la missione postpasquale e tutti i brani che nel NT parlano di missione si ispirano a questo evento fondamentale. Scegliamo come testo particolarmente significativo la conclusione del Vangelo di Matteo, in cui possiamo trovare una mirabile sintesi di teologia missionaria.
La comunità cristiana in cui opera l'evangelista sta vivendo proprio in quegli anni la forte esperienza dell'incontro con gente lontana dalla fede d'Israele, ma aperta e disponibile ad accogliere il messaggio cristiano: la comunità si sta aprendo all'esterno e scopre con stupore l'accoglienza dei pagani e la diffusione del Vangelo. È proprio per questa Chiesa che Matteo compone l'ultima pagina del suo scritto, presentando, con grande abilità letteraria, l'ultimo incontro del Cristo risorto con i suoi discepoli e le parole che egli rivolse loro. Il racconto di Matteo termina "aperto"; manca cioè una conclusione narrativa vera e propria; manca la descrizione finale di ciò che fece poi Gesù e di ciò che fecero poi i discepoli; il racconto termina con le parole di Gesù. Quello che segue è la vita stessa della Chiesa, è l'esperienza pastorale della comunità, è il vangelo vivente e vissuto (cf S.Brown, "The Matthean Community and the Gentile Mission", in: Novum Testamentum 22 (1980) 193-221).
Rileggiamo queste ultime parole di Gesù: "A me è stato dato tutto il potere in cielo e in terra. Andando, dunque, fate discepoli tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto quanto vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo" (Mt 28,18-20).
Notiamo subito l'insistenza sulla totalità: il Cristo risorto ha ricevuto da Dio (questo è il senso del passivo) autorità sull'universo; il Dio creatore del cielo e della terra affida ora in pieno la sua opera al Messia vincitore e lo costituisce signore definitivo su tutto. Proprio per questo il suo messaggio è destinato a tutte le genti, perché tutte rientrano sotto il suo potere. E non c'è netta separazione tra la vicenda storica di Gesù di Nazaret e la missione della Chiesa: quest'ultima, infatti, conservando nella sua totalità l'insegnamento del Cristo, è chiamata ad annunciare e rendere presente in tutti i secoli della storia l'evento fondamentale della storia, sicura della presenza, costante nel tempo, del suo fondatore. Così Matteo sintetizza, in modo semplice e narrativo, la dottrina della cattolicità.
Con le sue ultime parole Gesù afferma che proprio il potere universale ricevuto porta come conseguenza la missione dei discepoli: "Andando dunque fate discepoli tutte le genti...". Il potere del Cristo risorto si manifesta pertanto nell'attività missionaria della Chiesa, e tale attività consiste nel rendere ogni uomo discepolo del Regno. La traduzione corrente, usando il verbo "ammaestrare", evoca l'immagine del "maestro", un superiore che istruisce un inferiore; mentre il termine greco originario contiene la radice "imparare" ed evoca quindi l'immagine del "discepolo", cioè colui che ha imparato e sta imparando e desidera che anche gli altri diventino discepoli insieme a lui. Gli apostoli, dunque, e in essi tutta la Chiesa, sono mandati per comunicare a tutti gli altri la loro esperienza di fede, maturata nella vita condivisa con Gesù, il Cristo di Dio, morto e risorto: i mezzi concreti di questa comunicazione saranno i sacramenti (Mt 28,19: "battezzare"; Mc 16,16.18: "battezzare, imporre le mani agli ammalati"; Lc 24,47: "il perdono dei peccati"; Gv 20,22: "rimettere i peccati") e la catechesi.
Come in passato il Dio dell'Esodo, mandando Mosè a liberare il suo popolo, gli aveva fatto la solenne promessa: "Io sono con te", così ora il Signore Gesù manda i suoi discepoli a portare la liberazione a tutti gli uomini e garantisce di essere veramente l'Emmanuele, il Dio-con-noi. Il racconto del Vangelo termina proprio là dove inizia la vita della Chiesa, che continua nei secoli la missione degli apostoli ed in ogni tempo continua a sentire la presenza dinamica del Cristo che la manda e l'assiste nella missione universale di salvezza.
[Capitolo I]: Antico Testamento
[Capitolo II]: Gesù Cristo
[Capitolo III]: Chiesa Apostolica
Pagine a cura di don Paolo Benvenuto - Segnalami eventale materiale che possa essere aggiunto!
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Settembre 1996