Home Page | |
Indice del Materiale sulla Bibbia | |
Indice di questo studio |
L'IMPEGNO
MISSIONARIO Indice |
"Nulla è più freddo del cristiano che non si preoccupa della salvezza degli altri. Non puoi portare come scusa la povertà: ti accuserà la vedova che offrì i due spiccioli. Non puoi tirar fuori l'umiltà della nascita: gli apostoli erano persone semplici, nate da gente umile. Non puoi portare il pretesto dell'ignoranza: anch'essi erano illetterati. Non puoi mettere avanti la debolezza: anche Timoteo era debole e soffriva molti malanni. Ciascuno può essere di utilità al prossimo, se vuol fare tutto quello che può. Sono come alberi sterili quelli che pensano solo alle cose proprie, anzi non sono neppure tali, perché destinati al fuoco. Gli alberi sterili servono almeno per costruzioni e per la solidità degli edifici. Tali erano le vergini stolte: caste, belle e modeste, ma non utili a nessuno! Come può essere cristiano un individuo del genere? Dimmi, se il lievito mescolato alla farina non fa lievitare tutta la pasta, è veramente lievito? E se il profumo non avvolge del suo aroma quelli che gli si accostano, lo chiameremo ancora profumo? Non dire: mi è impossibile trascinare gli altri; se sei cristiano, è impossibile che questo non succeda" (S.Giovanni Crisostomo, Omelie sugli Atti 20,4: PG 60,162-163).
Con queste simpatiche e severe parole il santo vescovo Crisostomo, vissuto nel IV secolo, si rivolgeva ai suoi fedeli, commentando gli Atti degli Apostoli e ricordando a tutti i cristiani il grave impegno dell'annuncio e della testimonianza. Come allora, anche oggi ed in ogni tempo è urgente la chiamata missionaria e la necessità che ogni cristiano sia testimone credibile della sua fede, annunciatore forte e mite della Parola che salva. È un desiderio antico, ma proprio nel nostro tempo stiamo vivendo la realizzazione di questo principio come frutto del Concilio Vaticano II: infatti oggi "si sta affermando una coscienza nuova, cioè che la missione riguarda tutti i cristiani, tutte le diocesi e le parrocchie, le istituzioni e associazioni ecclesiali" (Redemptoris Missio [RM] 2).
Con questa nuova coscienza, la nostra Chiesa particolare vuole riscoprire il valore dell'impegno missionario e la necessità di una rinnovata evangelizzazione di un popolo tradizionalmente cristiano, ma di fatto lontano ed indifferente ad una vita di fede. Terminata l'illusione della cristinità totale, per cui "cristiano" era sinonimo di "uomo", contrapposto alle "bestie", ci siamo accorti con un po' di sorpresa che, in ogni città, la Chiesa è solo una parte della comunità umana e nemmeno la più importante.
Immediatamente dopo a questa constatazione nasce il problema del rapporto con quell'altra parte di persone che non condividono la nostra fede cristiana. La tentazione più forte è quella di chiudersi in difesa, in una specie di cittadella fortificata, sicuri e orgogliosi della propria ragione, lasciando che gli altri si arrangino. Opposta a questa, eppure simile nella radice, si pone un'altra tentazione: uscire allo scoperto ed attaccare gli altri ritenendoli "avversari" da sconfiggere. Entrambe queste immagini belliche di difesa e di attacco non si addicono al messaggio evangelico: per questo le ho chiamate tentazioni, perché sembrano soluzioni buone, ma in realtà non corrispondono al modo divino di agire.
La risposta cristiana adeguata al problema del rapporto con i non-credenti si chiama invece "missione": "la missione, infatti, rinnova la chiesa, rinvigorisce la fede e l'identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola!" (RM 2) Da questa formulazione possiamo ricavare una bellissima definizione: la missione è il dono della propria fede, la partecipazione ad altri di un dono ricevuto.
Ma il termine non è chiaro in se stesso e rischia di subìre diverse influenze ideologiche che lo deformano e lo rendono inesatto. Per la verità il termine "missione" non è biblico e nemmeno molto antico: nel senso ecclesiastico attuale compare per la prima volta negli ambienti gesuiti e carmelitani del secolo XVI. Al tempo dei Padri e nel Medio Evo si utilizzava di preferenza la terminologia della "predicazione" ("Christum praedicare"; "praedicatio apostolica"; "praedicatio christianae religionis"), ma il senso era evidentemente analogo.
È vero che nella Bibbia non si trova esplicitamente il sostantivo "missione", ma l'idea di questo vocabolo è testimoniata con chiarezza dai verbi "mandare", "inviare" e da imperativi come "andate ad annunziare...". Non è quindi rilevante l'assenza del termine che noi usiamo di prefenza, dal momento che è sicuramente biblica l'idea che vogliamo esprimere.
Per avere dunque una immagine corretta della missione cristiana, è indispensabile un ricorso alla Bibbia: dobbiamo cioè riprendere in mano gli antichi Libri che la Chiesa ci ha trasmesso come testimonianza della Rivelazione divina ed interrogare con cura quei testi per comprendere che cosa Dio intende per missione (Alcuni studi importanti sono stati condotti recentemente sul tema della missione nella Bibbia: E.Testa, La missione e la catechesi nella Bibbia: Studia Urbaniana, 14, Brescia 1981; D.Senior-C.Stuhlmueller, I fondamenti biblici della missione, Bologna 1985; L.Legrand, Il Dio che viene. La missione nella Bibbia, Roma 1989).
Sappiamo bene, tuttavia, che la Bibbia non è un blocco monolitico ed uniforme; non è una specie di repertorio o dizionario che possiamo consultare con facilità per avere indicazioni precise su qualunque problema ci interessi. La Bibbia è, invece, la memoria scritta del popolo di Dio: una serie diversificata di testi che rispecchiano il lungo cammino di un popolo segnato dall'attesa dell'intervento di Dio e poi dalla reazione a questo decisivo intervento compiuto in Gesù di Nazaret. L'evento fondamentale di Gesù Cristo diventa il cardine della storia ed anche il punto di separazione all'interno della raccolta biblica: rispetto al Cristo, infatti, si parla di Antico e di Nuovo Testamento, perchè l'antica alleanza ha raggiunto col Messia la sua pienezza e negli eventi pasquali della sua morte e risurrezione è stata inaugurata la nuova ed eterna alleanza.
La nostra ricerca biblica deve dunque rispettare questa fondamentale divisione ed articolarsi di conseguenza in tre momenti: dapprima prenderemo in considerazione i libri che testimoniano l'attesa di Israele ed il suo rapporto con gli altri popoli; il centro della nostra indagine riguarderà poi la vicenda e la persona stessa del Cristo, unico salvatore dell'umanità; ed infine ci ritroveremo sul nostro versante, alle prese coi libri biblici che presentano i primi passi della Chiesa e la dinamica missionaria che è alle nostre origini.
Il concetto di missione appare marginale nella teologia dell'Antico Testamento. La missione, infatti, comporta il manifestarsi di due fattori all'interno di una religione: il primo è l'attività con cui i credenti si impegnano a partecipare ad altri il contenuto dottrinale e la pratica della loro fede; il secondo è la coscienza che tale attività costituisca l'obbedienza ad un comando divino.
Ora, se consideriamo la storia religiosa dell'antico Israele, dobbiamo constatare che, nella sua fase iniziale e nel suo sviluppo fino ai tempi dell'esilio (VI secolo a.C.), la religione ebraica non comporta alcuna particolare spinta a diffondersi al di fuori di Israele (cf P.Bovati, "La missione nella religione dell'antico Israele", in: Ricerche storico bibliche 2 (1990) 25-44). Solo dopo l'esilio babilonese inizia a farsi strada una visione universalistica, che prende in considerazione anche gli altri popoli come destinatari dell'unico progetto salvifico del Dio d'Israele. In ogni caso di "missione" nel nostro senso non si parla quasi mai.
D'altra parte il problema religioso della missione non si risolve mettendo in semplice contraddizione i concetti di "particolare" ed "universale". È opportuno invece considerare nel suo insieme l'universo biblico veterotestamentario, per cogliere le radici "storiche" della Rivelazione e le sue principali testimonianze missionarie, senza pretendere di rinchiudere tutti i dati in un sistema compiuto (cf G.Ravasi, " Missione e universalismo nell'Antico Testamento", in: Rassegna di Teologia 28 (1987) 32-59).
Infatti, se consideriamo tutti gli aspetti biblici, ci troviamo di fronte ad atteggiamenti e posizioni molto differenti: sarebbe possibile raccogliere questi dati in due blocchi contrapposti che un esegeta ha chiamato il "dossier dell'odio" e il "dossier dell'universalismo". Nell'AT si trovano infatti atteggiamenti di estrema chiusura verso gli stranieri fino al desiderio della loro distruzione; ma compaiono altresì considerazioni positive sugli altri popoli con il desiderio della loro unione ad Israele. Quale di queste due correnti dobbiamo prendere in considerazione? Qualunque fosse la nostra scelta, non sarebbe corretto tacere dell'altra! Entrambe costituiscono il patrimonio biblico veterotestamentario. Non possiamo neanche pensare ad un processo di evoluzione, per cui si è passati da un antico atteggiamento esclusivista ad un recente clima di apertura ecumenica che sfocia nella fase neotestamentaria. I dati biblici non permettono questa affermazione. Esclusivismo ed apertura coesistono per tutta la storia dell'antico Israele.
La nostra ricerca deve dunque orientarsi in un'altra direzione: è opportuno, cioè, andare alla ricerca di quei fattori più profondi che hanno caratterizzato la Rivelazione biblica. Ed il primo dato fondamentale è che la Bibbia non è caduta dal cielo, ma è cresciuta con gli uomini: la Parola di Dio non è fuori dal tempo e dalle vicende umane, ma è fin dall'inizio "incarnata" nella storia degli uomini. Questa affermazione di base permetterà notevoli sviluppi per il discorso missionario.
Gli eventi che la Bibbia racconta visti da storici ed archeologi non sono altro che "fatti umani", spiegabili con categorie storiche, sociologiche, politiche, economiche: si tratta infatti di migrazioni, oppressioni, fughe, conquiste, organizzazioni di potere e colpi di stato. Eppure il Concilio ci ha insegnato chiaramente che la rivelazione "avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro" (Dei Verbum 2): vuol dire che la Parola di Dio ha dato un senso alla "storia laica" e l'ha resa storia della salvezza; vuol anche dire che le vicende degli uomini non sono indipendenti da Dio, ma, seppure con criteri propri, convergono sempre nella realizzazione del piano divino. L'affermazione per cui nessun evento storico è fuori dell'azione divina significa che la Parola di Dio è strutturalmente "missionaria".
Anche la natura con le sue fasi stagionali è assunta dalla Rivelazione come momento significativo. Le grandi feste d'Israele sono infatti celebrazioni preesistenti, legate alla vita naturale dei pastori e dei contadini: la Parola di Dio ha assunto questi elementi e li ha trasformati in celebrazione del Dio salvatore. La Pasqua era la tipica festa di primavera per i pastori che iniziavano la transumanza e per gli agricoltori che celebravano il rinnovarsi della vegetazione: in Israele invece Pasqua diventa la festa storica della liberazione. Pentecoste coincideva con il raccolto delle messi, ma per il popolo di Israele celebra il dono per eccellenza, l'alleanza con Dio al Sinai. La festa delle Capanne era la popolare ricorrenza autunnale in occasione della vendemmia, ma in Israele assume il valore di ricordo del tempo passato nel deserto e della terra donata da Dio. Così il rito naturale, comune a tanti popoli, diventa la celebrazione del Dio che si è rivelato ai figli di Israele.
Anche le culture degli altri popoli, con le loro letterature e mitologie, con i loro codici e regolamenti giuridici, non sono estranee al processo della Rivelazione. Gli autori biblici, infatti, pur essendo ispirati da Dio, non hanno rifiutato la cultura dei loro vicini: anzi hanno saputo attingere a piene mani dai patrimoni letterari e giuridici dei popoli che li circondavano. Ma non hanno preso tutto in blocco acriticamente; hanno invece sempre scelto e vagliato alla luce della loro fede, spesso smitizzando racconti e teorie. La letteratura biblica dell'AT è dunque un ottimo esempio di inculturazione e di missionarietà, perché Israele ha saputo formulare la propria teologia con le categorie culturali degli altri popoli e poi, a sua volta, ha offerto alle altre nazioni il contributo del suo pensiero e della sua visione del mondo.
Aspetto ancor più mirabile di questo processo della Rivelazione è l'incarnazione della Parola di Dio in "una" lingua umana: suscita ammirazione e stupore pensare alla "condiscendenza" di Dio che ha voluto esprimere il suo Pensiero in una lingua semplice e povera come l'ebraico e si è costretto in una particolare cultura, adattando forzatamente l'eterno allo storico. A questo fatto sono riconducibili tante espressioni lontane dal nostro modo di sentire e sempre questo fatto, alla luce del NT, ci rivela il valore strumentale che hanno le formule e i simboli della fede, premunendoci contro il rischio di assolutizzare le lingue e le forme religiose. Solo un simile pensiero permette un corretto approccio missionario, che sa rispettare lingue e culture, incarnando in esse il messaggio di fede.
Ultimo decisivo aspetto è la constatazione della realtà creata: la fede di Israele riconosce che tutto viene da Dio, tutte le creature gli appartengono e nulla sfugge al suo dominio. La creazione diviene così il primo articolo di fede, il primo evento della storia di salvezza nella convinzione che solo il Dio che ha creato l'universo è colui che può salvare. Soprattutto i Salmi celebrano il regno universale del Signore (cf Sal 22,29; 47,3.9-10; 66,5.7; 67,5; 96; 97; 98; 99; 138,5-6; 145,13); nel Salmo 33, ad esempio, si descrive in modo pittoresco il dominio cosmico di Dio:
"Il Signore guarda dal cielo,
egli vede tutti gli uomini.
Dal luogo della sua dimora
scruta tutti gli abitanti della terra,
lui che, solo, ha plasmato il loro cuore
e comprende tutte le loro opere" (vv.13-15).
All'aspetto discendente del dominio (Dio-creato) corrisponde anche un aspetto ascendente di lode e di rispetto (creato-Dio) per cui tutte le nazioni e tutte le creature sono coinvolte nell'unica lode al Creatore (cf Sal.22,28; 47,2; 67,3-8; 68,30-33; 96,1.7-9; 98,4.7; 99,3; 145,10-13). Il Salmo 145 avvicina questi due aspetti in una dolce sintesi:
"Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli" (vv.9-10).
Mons. Pietro Rossano nella prolusione alla XXX Settimana Biblica Nazionale, il 12 settembre 1988, spiegò che il dinamismo missionario è proprio e caratteristico delle religioni che credono in un Dio personale e creatore, espresse oggi nel grande tronco dell'ebraismo, dell'islam e del cristianesimo; mentre è assente nelle grandi religioni asiatiche che fondono in un'unica visione Dio, il mondo e l'uomo, disprezzando la storia e la realtà sensibile. Dalle osservazioni fatte in precedenza emerge chiaramente che la religione dell'antico Israele è segnata dalla dinamica storica e profetica e vede all'origine dell'universo un atto creatore di Dio che chiama il mondo all'essere, vi colloca l'uomo e gli rivolge la sua parola direttamente e poi per mezzo dei profeti gli indica la sua volontà e il suo disegno nella storia: un disegno di giustizia e di pace, la cui attuazione è affidata agli uomini e sul quale Dio stesso vigila come vindice del bene e del male. La storia umana appare perciò come la realizzazione progressiva di un disegno divino che abbraccia tutte le nazioni della terra e che richiede la collaborazione dei "fedeli", cioè gli uomini della fede, perché possa giungere alla piena realizzazione (P.Rossano, "La missione nella Bibbia e nelle religioni", in: Ricerche storico bibliche 2 (1990) 9-11).
I principi fondamentali della Rivelazione nell'AT si sono dunque presentati come la struttura portante che permette un discorso biblico missionario, anche se storicamente nel popolo di Israele non si è mai realizzata un'attività missionaria come la pensiamo noi. Questi principi fondamentali però hanno influenzato in modo diverso i periodi della storia di Israele in una continua alternanza fra la vocazione universale dell'umanità e l'elezione specifica del popolo ebraico.
I libri biblici non sono la storia di Israele, ma contengono la riflessione religiosa di molte epoche e riflettono quindi valutazioni e giudizi sensibilmente diversi. Per la nostra ricerca sul tema della "missione" prendiamo in considerazione tre grandi epoche che hanno fortemente caratterizzato il pensiero teologico.
Al tempo della conquista, cioè fra il 1200 e il 1000 a.C., Israele è un insieme di tribù diverse che cercano una terra ove risiedere e con grande fatica si organizzano, ora convivendo pacificamente con gli indigeni cananei, ora venendo alle armi per difesa o per attacco di conquista. Un discorso teologico di missionarietà in questa fase storica è semplicemente impensabile.
Con l'instaurazione della monarchia davidica e la scelta di Gerusalemme come capitale, sede del Palazzo regale e del Tempio, le tribù d'Israele diventano uno stato. Ormai l'insediamento è sicuro e lentamente la stabilità politica si trasforma in imperialismo: l'epoca di Davide e di Salomone è caratterizzata proprio da questa potenza militare che tiene sotto controllo gli altri popoli vicini. Anche in questa situazione il clima religioso è di contrapposizione nazionalistica, per nulla favorevole ad un dialogo missionario.
Tuttavia l'età davidica è anche segnata da un molteplice e diffuso contatto con le altre culture: il giovane stato d'Israele prende tutto quello che può dalle civiltà vicine, vive una intensa fase di assimilazione culturale e in tal modo si apre anche teologicamente alla diversità e all'accoglienza.
Alla corte di Salomone, infatti, nasce e si sviluppa una importante scuola sapienziale che, per la prima volta, compie un lavoro di raccolta delle tradizione arcaiche del popolo e le organizza in un testo che gli esegeti moderni chiamano "Storia sacra yahwista". Con quest'opera i teologi di Israele vogliono mostrare il senso della loro storia ed elaborando antichi frammenti compongono il primo esempio di storia della salvezza.
Le tradizioni dei patriarchi permettono a questi teologi di spiegare, tramite antiche parentele, i rapporti d'Israele con gli altri popoli dell'area cananea. Israele rivela così chiaramente la coscienza di essere legato ai popoli vicini, eppure di essere anche diverso e separato: come loro discende da Abramo, ma è il solo portatore della benedizione divina.
La figura di Abramo diventa dunque fondamentale per i teologi yahwisti: egli è il primo scelto, l'uomo eletto da Dio fra la moltitudine delle genti per diventare il fondamento di una nuova umanità. Alla maledizione toccata al disobbediente Adamo e a tutta l'umanità di cui egli è il simbolico padre (Gn 3,14.17; 4,11; 5,29; 8,21; 9,25-26) viene contrapposta la benedizione che Dio offre al capostipite del popolo:
"Farò di te un grande popolo e ti benedirò,
renderò grande il tuo nome e sarai una benedizione.
Benedirò coloro che ti benediranno
e coloro che ti malediranno maledirò:
in te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra"
(Gn 12,2-3; cfr. anche 18,18 e 28,14. Il NT cita questo versetto a proposito del
Cristo ritenuto il compimento della benedizione: cfr. At 3,25 e Gal 3,8).
La benedizione è il dono della benevolenza divina: Abramo ne è il destinatario e, in quanto tale, ne diventa l'intermediario verso tutte le altre famiglie della terra. La storia primitiva si occupava di tutta l'umanità ed era segnata dal peccato culminante con la dispersione di Babele: con Abramo l'orizzonte si restringe ad un uomo e alla sua famiglia futura, ma il segno diventa positivo. La benedizione che si posa su Abramo e sulla sua discendenza non è tuttavia patrimonio esclusivo suo, giacché egli sembra portatore di una missione universale, portatore della grazia e della misericordia di Dio nei riguardi di tutti (cf A.Ranon, «Il "popolo di Dio" e gli altri popoli», in: Credere Oggi 30 (1985) 15-23). La presenza e l'intercessione di Abramo portano infatti prosperità e salvezza: il popolo che nasce da lui sembra dunque continuare questo compito di mediatore della salvezza. I teologi di Salomone sono coscienti ed orgogliosi di questo ruolo.
Uno sviluppo analogo ha la considerazione di un'altra grande tradizione di Israele: quella dell'alleanza con Dio sul Sinai, l'evento che segna il vertice del processo di "elezione". La liberazione dall'Egitto e l'esperienza sinaitica sono stati i momenti costitutivi della nazione ebraica: il popolo li ha sempre ricordati come decisivi ed i teologi hanno sviluppato su di essi la loro riflessione. Al Sinai, ripetono dunque tanti testi biblici, Dio ha scelto il popolo di Israele a preferenza di tutti gli altri popoli e si è legato con lui in modo tutto particolare. Ma tale elezione è stato un dono e non un favore dovuto: Israele non aveva qualità tali da meritare una simile scelta (cf Dt 7,7-8).
A prima vista questa opinione teologica sembra il fondamento dell'esclusivismo religioso e la giustificazione per il rifiuto di tutti gli altri popoli. Invece, ad un esame più attento si scopre che l'elezione gratuita non è fine a se stessa, ma implica uno scopo, cioè un servizio o una missione: "l'elezione di Israele non è esclusiva, ma inclusiva. Esso è l'eletto perchè tutti siano eletti" (W.L.Moran, The Present Revelation, New York 1972, p.248). Questo aspetto è messo in luce dalla celebre dichiarazione contenuta in Es 19,5-6:
"Voi sarete per me la proprietà fra tutti i popoli,
perché mia è tutta la terra!
Voi sarete per me un regno di sacerdoti
e una nazione santa"
(Il NT applica tale dichiarazione al nuovo popolo cristiano: cfr. 1Pt 2,9 e Ap
5,10).
È chiaro un contrasto fra tutta la terra, proprietà di Dio, ed una piccola porzione di essa enfaticamente chiamata "proprietà": questo termine (in ebraico "segullah") ha un valore simbolico relativo all'attività pastorale ed indica il gregge di proprietà strettamente personale. "Ma la comunità del Sinai è anche «regno di sacerdoti» ed è proprio in questa locuzione che si manifesta il valore «missionario» dell'elezione di Israele. Infatti tutto Israele è la tribù sacerdotale in mezzo a tutte le famiglie della terra. Come Levi è intermediario tra JHWH e la nazione intera, così Israele lo è tra Dio e le nazioni" (G.Ravasi, "Missione...", art.cit., pp.46-47).
Durante i cinque secoli della monarchia queste grandi tradizioni teologiche non hanno influito direttamente sulla vita del popolo. Anzi molto spesso la fede popolare si è allontanata dai principi fondatori e si è accostata pericolosamente ai culti e alle credenze delle popolazioni cananee indigene. Anzichè essere portatori della loro fede, gli Israeliti si sono lasciati spesso conquistare da altre visioni religiose. In questo contesto di crisi diffusa nasce la grande tradizione omiletica che gli esegeti chiamano "deuteronomica", rappresentata per secoli da predicatori itineranti e catechisti popolari, divenuti poi a Gerusalemme elaboratori di una intera storia di Israele allo scopo di formare le coscienze e riformare i costumi. È proprio questa tradizione che conserva il maggior numero di espressioni dure contro i popoli stranieri, fino all'incitamento esplicito a distruggere tutto e tutti. Ma tale posizione deve essere compresa correttamente nel suo valore catechistico-popolare e nel suo intento di conservazione della fede genuina: questi predicatori si rivolgono ad uditori inclini ad accogliere tutto ciò che è straniero e a trascurare le proprie tradizioni; è quindi comprensibile e spiegabile il loro insistente richiamo.
L'anno 587 a.C. segna la fine di un mondo. L'esercito babilonese assedia Gerusalemme, la distrugge e rade al suolo il tempio di Dio; il popolo è deportato in massa in squallidi campi profughi alla periferia di Babilonia. Tutto sembra proprio finito. Per molti la fede entra in crisi e svanisce come la speranza di un futuro migliore. Eppure, proprio fra gli esiliati che hanno perso tutto, a migliaia di chilometri dalla patria, nasce per Israele una nuova stagione spirituale.
Un grande profeta, anonimo, leva la sua voce per confortare il popolo e additare la nuova via. La sua opera è stata aggiunta al rotolo di Isaia e per questo i moderni lo chiamano il Secondo Isaia (Sono suoi i capitoli 40-55 del libro di Isaia).
Egli rinnova prima di tutto la fiducia nella elezione di Dio: le vicende storiche avevano fatto dubitare di questa scelta divina ed il profeta ricorda a Israele la sua straordinaria relazione con Dio e lo fa con espressioni piene di commozione e di tenerezza:
"Così dice il Signore:
Non temere, perché io ti ho riscattato,
ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni"(Is 43,1).
Rispetto ad Israele gli altri popoli sono come un nulla, "come una goccia da un secchio", "come il pulviscolo sulla bilancia" (Is 40,15). Dio dunque non ha dimenticato la sua scelta ed ora viene in aiuto al suo popolo e tutte le nazioni in mezzo alle quali Israele è stato disperso vedranno il prodigioso intervento di Dio.
La svolta teologica del Secondo Isaia si opera proprio qui: Dio interviene a favore di Israele e giudica le nazioni che adorano gli idoli falsi; ma non mira alla loro distruzione, bensì alla loro salvezza:
"Volgetevi a me e sarete salvi,
paesi tutti della terra" (Is 45,22).
Per mezzo del suo prossimo intervento salvifico, egli dimostrerà a tutte le genti che il Salvatore di Israele è l'unico Dio; gli Israeliti saranno suoi testimoni (Is 43,10.12) e potranno dire agli altri quanto essi stessi hanno creduto e sperimentato. Nasce in questo modo la grande idea teologica delle nazioni chiamate ad unirsi a Israele e convertirsi al Signore. L'opera di Dio attraverso la mediazione del popolo eletto acquista una dimensione universale ed una valenza missionaria.
Con l'editto di Ciro dell'anno 538 a.C. l'esilio coatto è finito e può iniziare il rimpatrio. Alcuni entusiasti partono per la Giudea e si accingono a ricostruire Gerusalemme ed il tempio: ma i lavori sono molto più lunghi e difficili del previsto; presto si ingenera la stanchezza e la delusione. Ancora una volta sono i profeti a rincuorare il popolo e a indicare la meta gloriosa che il Signore sta preparando (In questo periodo nasce la corrente religiosa e letteraria chiamata "apocalittica": cfr. P.D.Hanson, The Dawn of Apocalyptic, Philadelphia 1983. Molti testi di questo genere confluiscono nelle raccolte dei profeti e danno un nuovo tono di universalismo. Gli apocalittici infatti presentano l'intervento futuro di Dio come il giudizio su tutta la terra e la raccolta di tutti i popoli nell'unica grande festa: come esempio tipico di questo messaggio, vedi Is 25,6-10).
Un anonimo profeta di questo periodo chiamato Terzo Isaia (autore di Is 56-66) compone uno splendido poema sullo splendore di Gerusalemme (Is 60) in cui l'insegnamento del Secondo Isaia porta i suoi frutti migliori: la nuova città è la luce dell'universo intero e tutte le nazioni, avvolte dalle tenebre, si incamminano verso Gerusalemme ed in essa l'umanità può godere finalmente i frutti della pace e della giustizia. L'immagine del pellegrinaggio dei popoli verso Israele sarà un tema che tornerà ripetutamente e sarà il modo abituale di presentare l'apertura universalistica della nuova teologia: non un impegno per portare la luce, ma il desiderio e la disponibilità ad accogliere tutti quelli che vorranno venire (cf E.Cortese, "La missione nell'Antico Testamento", in: Parole di Vita 35 (1990) 7-14).
Con le popolazioni straniere che avevano occupato il territorio la nuova comunità dei rimpatriati stringe vincoli di collaborazione e di simpatia: tale apertura è evidente frutto della nuova visione teologica e lascia anche per i secoli futuri una traccia indelebile nella sensibilità di Israele facendo nascere testi classici dell'apertura religiosa quali il libro di Rut e quello di Giona, opere edificanti come il libro di Tobia ed autentici scritti missionari come il libro della Sapienza (cf G.Boccaccini, "Prospettive universalistiche nel tardo giudaismo", in: Parola Spirito e Vita 16 (1987) 81-98).
Ma questa stessa situazione presentava dei pericoli e così la necessità di organizzazione, di difesa e di recupero dell'identità ebraica portano ad assumere atteggiamenti forti di intrasigenza e di intolleranza nei confronti degli stranieri. Verso il 400 a.C., infatti, la riforma di Esdra e Neemia crea un rigido sistema di nazionalismo religioso, chiuso ad ogni relazione con l'esterno. In questo modo Gerusalemme si chiude nel tempio ed esce dalla storia. Il rigoroso nazionalismo esploderà di nuovo nel II secolo a.C. con la rivolta dei Maccabei e continuerà ancora ai tempi di Gesù nella polemica antiromana con le correnti dei farisei, degli zeloti e degli esseni.
Questo lungo periodo storico che va dal V secolo a.C. ai tempi di Gesù vede dunque convivere due anime religiose e la letteratura biblica di questa età continua ad oscillare fra universalismo ed esclusivismo, fra proselitismo per convertire i pagani e chiusura orgogliosa nel ghetto dei giusti. Non possiamo quindi tracciare una storia di evoluzione fino al Cristo; può essere utile, invece, soffermarci ancora su alcuni elementi particolarmente significativi per costruire una teologia biblica della missione.
Elemento decisivo di ogni discorso missionario è la relazione personale fra colui che manda e colui che è mandato. Se passiamo, dunque, dal piano generale del popolo a quello personale, noi possiamo trovare i libri biblici dell'AT costellati di personaggi chiamati da Dio per una missione. Ognuno di essi è il rappresentante di quella forza d'amore che esce da Dio e vuole raggiungere tutti gli uomini; ognuno di essi ha una storia personale ed una vicenda diversa da tutte le altre, ma tutti partecipano di quell'amore divino che vede la difficile situazione dell'uomo ed interviene in suo favore.
Così Giuseppe, alla fine della sua drammatica avventura, accogliendo i suoi fratelli annuncia loro con entusiasmo il senso di tutta quella vicenda: "Non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita" (Gen 45,5). Sembrava una storia di gelosie tra fratelli ed invece si rivela un progetto della provvidenza di Dio: all'insaputa di tutti, il giusto Giuseppe ha avuto la missione di conservare la vita alla famiglia di Giacobbe.
Così Mosè è chiamato dal Signore perché le grida dei figli di Israele oppressi in Egitto sono giunte fino a lui ed egli vuole intervenire in loro favore. Ma l'intervento divino è mediato da Mosè: è lui infatti che dovrà svolgere la missione del liberatore. "Ora va'! Io ti mando dal faraone per fare uscire dall'Egitto il mio popolo" (Es 3,10).
Così i Giudici sono presentati dal narratore deuteronomista come capi carismatici suscitati da Dio per la salvezza del popolo: la storia di ognuno di loro è storia di missione. Valga per tutte le altre l'incarico che l'angelo del Signore affida all'esitante Gedeone: "Va'! Mostra la tua forza. Io ti mando a liberare Israele dal potere dei Madianiti" (Gdc 6,14).
Ma nella storia biblica i "mandati" per eccellenza sono i profeti: gli uomini portavoce di Dio, coloro che alzano la voce perché Dio sia ascoltato. Inviati al popolo, hanno sempre come scopo ultimo la salvezza. Significativa per tutte le numerose altre è la chiamata di Isaia. Il Signore domanda: "Chi manderò e chi andrà per noi?"; il profeta risponde: "Eccomi, manda me!" e Dio conclude: "Va' e parla a questo popolo" (Is 6,8).
I profeti sono autentici missionari popolari, inviati alla gente di Israele, gente in teoria credente, ma di fatto infedele. Pochi altri modelli biblici assomigliano di più alla nostra moderna situazione: il molteplice lavoro dei profeti, infatti, si avvicina molto a quello che noi oggi chiamiamo impegno per una nuova evangelizzazione. Amos, Osea, Isaia, Geremia, Ezechiele sono stati autentici "catechisti degli adulti", maestri di fede e coraggiosi annunciatori del diritto divino; non si sono impegnati nella diffusione della fede presso gli stranieri pagani, ma hanno lavorato con dedizione estrema per convertire il popolo che serve il Signore con le labbra, mentre il suo cuore è lontano ed ostinato.
Personaggio profetico simbolico, capolavoro letterario del Secondo Isaia, è la figura del "Servo di JHWH" in cui si concentrano la vocazione e la missione del popolo intero: personaggio del presente ed anche anticipazione di un salvatore futuro, egli è inviato "agli sfiduciati di Israele" (Is 50,4) "per restaurare le tribù di Giacobbe" (Is 49,6). Ma la sua missione non si ferma qui; fin dalla prima presentazione è chiaro il piano che Dio ha su di lui: egli deve "portare il diritto alle nazioni" (Is 42,1.4) e le isole più lontane della terra sono in attesa del suo messaggio. Nonostante le difficoltà della sua missione, egli non deve perdersi d'animo, perché il suo compito abbraccia un orizzonte universale:
"Io ti renderò luce delle nazioni,
perché porti la mia salvezza
fino all'estremità della terra" (Is 49,6).
Il Servo è chiamato a vivere in pienezza la missione che da sempre Dio ha pensato per il suo popolo: essere mediatore della salvezza per tutta l'umanità. Per questo è il simbolo più evidente per l'AT di impegno missionario universale. Si comprende bene il motivo per cui la comunità cristiana primitiva ha visto nella figura del Servo una profezia diretta dell'opera universale di salvezza compiuta da Gesù Cristo.
Accanto a quella del profeta, un'altra figura biblica che potremmo chiamare missionaria è quella del sapiente, l'uomo che ricerca nello studio il senso della vita, della storia e del cosmo. I sapienti non sono certo personaggi popolari, né impegnati in un servizio di tipo catechistico; sono piuttosto uomini della ricerca e della biblioteca. Eppure il loro lavoro è prezioso ed importante perché la sapienza è per natura sua "ecumenica" ed il sapiente più che dell'ebreo si occupa dell'uomo in quanto tale, più che studiare la storia di Israele si impegna a scoprire la presenza di Dio nel quotidiano, più che curare un'etica specifica mira a trovare le risposte per le domande ultime dell'esistere. In questo modo i sapienti biblici sono gli uomini del dialogo, naturalmente aperti a tutte le culture e capaci di rivolgersi all'uomo di ogni tempo con una eccezionale carica di fascino e di entusiasmo. Non per niente molti nostri contemporanei, anche se lontani dalla fede, leggono con passione e amore i libri sapienziali di Giobbe e di Qohelet: i loro antichi autori continuano nei secoli un'opera missionaria.
I teologi dell'esilio avevano scoperto con chiarezza la missione di Israele, cioè l'impegno del popolo ad essere testimone e messaggero di Dio verso tutta l'umanità. Ma era idea nuova e difficile da accettare, soprattutto perché la finalità di questa missione era la salvezza di tutti. Infatti non tutti gli israeliti accettarono tale discorso: a qualcuno dava troppo fastidio pensare che gli altri popoli, quelli lontani e diversi, potessero essere salvi come Israele. Al massimo il popolo eletto poteva annunciare agli stranieri l'intervento punitivo di Dio ed aspettare fiduciosamente che il Signore li eliminasse tutti.
In questo clima spirituale un anonimo e geniale autore racconta la storia di Giona, un uomo dalla testa dura proprio come il popolo di Israele. Il suo nome significa "colomba" e la colomba è spesso utilizzata come il simbolo stesso del popolo. La vicenda di Giona riflette dunque il dibattito missionario del tempo e con essa l'autore scrive un nuovo capitolo di teologia della missione (cf P.Sessolo, La salvezza dei popoli nel libro di Giona. Studio sul particolarismo ed universalismo salvifico, Roma 1977).
Giona è chiamato da Dio e mandato a predicare a Ninive, il simbolo stesso degli stranieri, prepotenti e cattivi: tale missione non rientra nei progetti di Giona ed egli non ha nessuna intenzione di cambiare questi progetti: vuol fare di testa sua. Dio gli ha detto di andare ad est ed egli si imbarca per il lontano ovest. La conseguenza è il naufragio. Andando contro Dio l'uomo non trova la sua strada, ma perde tutto e naufraga in un mare che non è affatto dolce. Giona fa l'esperienza della morte (come il popolo l'aveva fatta durante l'esilio), ma, proprio attraverso questa perdita totale, scopre il valore della vita che gli è ridonata. Punto e a capo.
Tutto ricomincia: Dio ripete chiamata e missione. Questa volta Giona obbedisce e parte missionario per annunciare la distruzione di Ninive, se la grande città peccatrice non si convertirà. Ninive si converte ed il profeta resta deluso: non se lo sarebbe mai più aspettato! Annunciava la necessità della conversione, ma dava per scontato che ciò fosse impossibile. Umanamente soddisfatto di sè, si aspettava di vedere un gran cataclisma come prova dell'intervento di Dio.
Invece Dio aveva operato misteriosamente attraverso la parola del suo profeta ed ha cambiato il cuore degli stranieri perché vuole la salvezza di tutti. Giona, come Israele, deve convincersi che l'azione di Dio non ha confini territoriali e razziali: sempre e dovunque opera per donare la vita.
All'insegnamento di questo racconto si appella Gesù stesso proponendo ai suoi ostinati ascoltatori l'unica alternativa nel "segno di Giona" (Mt 12,39-41; 16,4; Lc 11,29-32). Gesù rivela concretamente l'amore misericordioso di Dio rivolto ad ogni uomo, senza pregiudizi ed umani impedimenti, e proprio la sua libera apertura a tutti dà fastidio agli uomini gretti, chiusi nel loro settario guscio religioso. A costoro e a tutti i loro simili nei secoli il Signore Gesù propone ed offre il segno di Giona: il mistero della sua morte e risurrezione, fonte di salvezza offerta ad ogni uomo, anche ai più lontani e diversi. In Gesù di Nazaret, infatti, la teologia della missione incontra il vero fondamento e la sorgente di una vitalità assolutamente nuova.
[Capitolo I]: Antico Testamento
[Capitolo II]: Gesù Cristo
[Capitolo III]: Chiesa Apostolica
Pagine a cura di don Paolo Benvenuto - Segnalami eventale materiale che possa essere aggiunto!
Questa pagina è sul Web da
Settembre 1996