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L'IMPEGNO
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Il finale aperto di Matteo non racconta la reazione dei discepoli al mandato missionario; il finale di Marco offre una formula di esecuzione molto generale e sintetica: "Allora essi partirono e predicarono dappertutto mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l'accompagnavano" (Mc 16,20). Per conoscere i primi passi della comunità cristiana ed il difficile inizio della missione apostolica dobbiamo dunque rivolgerci a Luca e leggere la sua opera storico-teologica.
Luca è il teologo della storia della salvezza: con le sue dotte qualità di letterato e storico ha saputo inquadrare la vicenda cristiana in uno schema teologico di storia a tre tempi. Gesù è il centro e il culmine della storia: Israele ne era la premessa e la Chiesa ne costituisce la continuazione. L'unica opera di Luca, in due volumi, costituisce dunque la presentazione del passaggio da Gesù alla Chiesa e dell'impegno di continuazione affidato alla comunità di Cristo. Gli Atti degli Apostoli, infatti, iniziano proprio là dove termina il Vangelo e, come nella teologia giovannea, il passaggio è operato dallo Spirito Santo, promesso e donato dal Risorto (cf G.Betori, "Lo Spirito e l'annuncio della Parola negli Atti degli Apostoli", in: Rivista Biblica Italiana 35 (1987) 399-441).
Nell'ultimo capitolo del suo Vangelo Luca racconta gli incontri dei discepoli con il Cristo risorto: sottolinea con insistenza che egli "aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture" (Lc 24,45) e fece comprendere il senso della sua morte a quegli uomini "sciocchi e tardi di cuore" (Lc 24,25). Ma non racconta di un invio esplicito da parte di Gesù: egli afferma che "nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione dei peccati, cominciando da Gerusalemme" (Lc 24,47); ma non li manda in tutto il mondo, anzi li invita a rimanere in Gerusalemme (Una interessante lettura "narrativa" è offerta da J.N.Aletti, L'arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa del vangelo di Luca, Brescia 1991).
Gli Atti iniziano con la medesima scena e le stesse raccomandazioni; viene esplicitato l'incarico: "Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (At 1,8), ma non vengono spiegate le modalità della testimonianza, né presentato l'invito urgente a partire per il mondo. Infatti gli apostoli rimasero a Gerusalemme!
La missione, intesa come impegno a portare la fede oltre i propri confini, non inizia subito dopo Pasqua. E neanche subito dopo la Pentecoste. Luca narra la prodigiosa investitura degli apostoli e la discesa dello Spirito Santo, presentando l'evento come il punto decisivo di partenza: l'apertura delle porte del cenacolo coincide con l'apertura del piccolo gruppo apostolico al resto della gente presente nella capitale per la festa (cf J.Dupont, "La prima Pentecoste cristiana", in: Studi sugli Atti degli Apostoli, Roma 1975, pp.823-860). È vero che la folla raccolta intorno a Pietro e agli altri undici proveniva da ogni nazione che è sotto il cielo, ma è anche vero che sono tutti Giudei (At 2,5): ciò che li rende diversi è la varietà delle lingue parlate e proprio questo fatto permette al narratore di mostrare nell'episodio di Pentecoste una prefigurazione della missione apostolica. Il messaggio cristiano è destinato a tutte le lingue e tutte le culture (cf Pio XII: "La Chiesa cattolica non si identifica con nessuna cultura; la sua stessa essenza glielo impedisce. Tuttavia essa è pronta ad intrattenere rapporti con tutte le culture", 7 settembre 1955, AAS, 47, p.681): il dono dello Spirito rende possibile questa destinazione universale, ma per il momento gli apostoli si rivolgono solo agli Israeliti, alle persone di fede ebraica. Non escono dalla loro terra ed i pagani non li vanno a cercare.
Inizia tuttavia la predicazione e Luca la presenta come la prima fase della testimonianza, quella a Gerusalemme, di fronte al popolo e alle autorità di Israele. Ciò che caratterizza questo primo momento dell'evangelizzazione è la comprensione del ruolo decisivo, insostituibile ed universale del Cristo. Alle autorità religiose ebraiche che interrogano gli apostoli a riguardo della guarigione dello storpio, Pietro risponde: "Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta davanti sano e salvo. Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi costruttori, è diventata testata d'angolo. In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati" (At 4,10-12). La primitiva comunità cristiana annuncia soprattutto questo: Gesù di Nazaret è il Cristo, risuscitato da Dio e da lui costituito capo e salvatore unico di tutta l'umanità.
Nonostante tale convinzione il gruppo apostolico rimane all'interno dell'ebraismo e resta legato alla visione religiosa del popolo eletto: il Vangelo è predicato solo ai Giudei. Dal racconto degli Atti si vede come l'apertura sia stata lenta e difficile, nata per l'intervento di Dio e non per calcoli umani.
La conversione ed il battesimo del centurione Cornelio e di tutti quelli della sua casa non fu iniziativa pastorale di Pietro: il narratore sottolinea con maestria come in quella vicenda tutto sia accaduto per volere di Dio e l'apostolo sia stato trascinato a quel passo quasi contro voglia (At 10,1-48). Un angelo di Dio appare a Cornelio e lo invita a cercare Pietro; mentre costui sta pregando ha una strana visione che gli insegna a non considerare impuro ciò che Dio ha purificato; quando giungono i messi di Cornelio, lo Spirito suggerisce a Pietro di seguirli, anche se non li conosce. Giunto in casa del centurione, l'apostolo comprende il senso della visione ed inizia l'annunzio cristiano (Il discorso di Pietro, At 10,34-43, come molti altri discorsi negli Atti, sono il modello sintetico della prima predicazione cristiana: contengono, cioè, il "kerygma", il contenuto essenziale del primo annuncio) e mentre egli sta ancora parlando lo Spirito Santo scende su tutti gli ascoltatori: l'intervento di Dio previene l'opera pastorale della Chiesa.
I fedeli circoncisi venuti con Pietro si meravigliano del fatto ed i cristiani di Gerusalemme, quando vengono a sapere che il battesimo è stato concesso a dei pagani, contestano l'iniziativa e rimproverano Pietro: egli, per giustificarsi, deve raccontare tutta la storia e spiegare la volontà di Dio presente in quegli eventi. Pietro aiuta i confratelli a leggere i segni dei tempi: "Se Dio ha dato a loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?" (At 11,17).
La prima missione apostolica fu dunque "involontaria" ed anche contestata. Un altro evento, provvidenziale, spinse il Vangelo fuori dal ghetto giudaico.
Al tempo del martirio di Stefano, probabilmente nell'anno 36 d.C., "scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme e tutti, ad eccezione degli apostoli, furono dispersi nelle regioni della Giudea e della Samaria" (At 8,1). La dispersione dei cristiani si rivelò una autentica semina, giacché "quelli che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la parola di Dio" (At 8,4). Alcuni di questi giunsero fin nella Fenicia, a Cipro e ad Antiochia: in questa città, senza un particolare progetto missionario, qualche cristiano parlò della propria fede a dei Greci e la buona notizia di Gesù Cristo suscitò vivo interesse. I particolari di quegli eventi non ci sono noti; Luca spiega sinteticamente il fatto con una formula teologica: "La mano del Signore era con loro e così un gran numero credette e si convertì al Signore" (At 11,21). La Chiesa di Antiochia nasce per l'apporto di missionari anonimi e per l'intervento personale ed efficace del Signore. I due aspetti vanno tenuti ovviamente insieme e possono essere considerati il segno distintivo di ogni futura iniziativa missionaria (cf J.Dupont, "La Chiesa di Antiochia: alle origini della missione", in: Parole di Vita 35 (1990) 261-268).
La notizia di questa insperata e inattesa apertura ai non-ebrei giunge presto a Gerusalemme e la Chiesa madre invia alla comunità appena nata il levita Giuseppe, soprannominato "Barnaba", cioè "figlio dell'esortazione": tale espressione allude senz'altro alla sua capacità profetica, dice cioè che era capace di parlare di Dio alla gente e di saper cogliere negli eventi lo svolgimento del piano salvifico di Dio. Vero profeta, Barnaba, incontrando i greci convertiti, prova una grande gioia ed intuisce l'opera della grazia divina (At 11,23). Il primo grande passo ormai è compiuto: i pagani hanno aderito al messaggio cristiano e la comunità di Gerusalemme vede in questo fatto la volontà di Dio. Audacia e prudenza si sono rivelate ambedue necessarie: sono stati audaci i primi missionari nel rompere le barriere e fare ciò che non era mai stato fatto prima; sono stati prudenti quelli di Gerusalemme che non hanno subito approvato o condannato, ma hanno inviato un uomo di fiducia per vedere e provvedere, discernere e decidere; Barnaba, infine, sembra proprio riunire armonicamente nella sua persona questi due atteggiamenti. D'ora in poi tutta la storia della Chiesa procederà in questa direzione.
Barnaba, aiutato da Saulo, incoraggia la giovane Chiesa a perseverare e, per garantire una autentica crescita di fede, svolge con impegno un accurato lavoro di formazione ed istruzione (At 11,24.26): dopo la prima evangelizzazione (l'annuncio del kerygma) si rivela infatti indispensabile il momento dell'insegnamento (la didaché) che tende all'approfondimento del primo annuncio, alla assimilazione personale e comunitaria del dono del Vangelo e alla conseguente determinazione di tradurre la buona notizia in precisi e concreti gesti comunitari e missionari (cf L.A.Castro Quiroga, L'animazione missionaria secondo Atti degli Apostoli, Bologna 1991).
La "nuova" comunità di Antiochia dimostra presto di essere maturata nella fede con due scelte significative e decisive: si prende a cuore la situazione dei poveri ed interviene concretamente con l'invio di soccorsi (At 11,29); in modo analogo intende prendersi a cuore la situazione di altri poveri, coloro che non conoscono la gioia del Vangelo, ed organizzano la prima missione cattolica (At 13,1-3).
In questo momento decisivo per la Chiesa compare nella comunità cristiana un personaggio eccezionale, autentico ideatore e animatore della missione apostolica: Paolo di Tarso (Importante studio sul ruolo missionario di Paolo rimane l'opera di O.Kuss, Paolo. La funzione dell'Apostolo nello sviluppo teologico della Chiesa primitiva, Roma 1974). Con lui il messaggio del Cristo risorto arriva davvero fino agli estremi confini della terra (Gli Atti iniziano con questo incarico, At 1,8, e terminano con la predicazione di Paolo a Roma, At 28,30-31, significando in tal modo il compimento del mandato missionario).
L'evento decisivo per il credente e rigoroso fariseo Saulo è stato l'incontro di Damasco (Tre volte gli Atti presentano questo episodio, evidentemente per sottolinearne l'importanza: At 9,1-19; 22,5-16; 26,9-18): per tutto il resto della sua vita egli si presenterà come uno che "ha visto" il Signore. L'esperienza personale e profonda del Cristo risorto ha cambiato la sua vita, lo ha reso di Cristo, lo ha fatto cristiano. Senza dubbio è questa la vocazione essenziale e determinante. Ma altri due momenti nella vita di Paolo possono essere considerati ulteriori interventi di vocazione e, anche, di conversione.
Dopo i fatti di Damasco. Paolo è andato incontro ad una serie di gravi difficoltà: vogliono ucciderlo a Damasco e deve fuggire (At 9,23-25); a Gerusalemme viene emarginato ed è oggetto di diffidenza e paura (At 9,26), finché deve scappare anche di lì per evitare di essere ucciso (At 9,29-30). Si ritira a Tarso, nella sua città d'origine, ed esce dalla scena. Che cosa abbia fatto in quegli anni ci è completamente oscuro. Né gli Atti, né le sue lettere ne fanno mai menzione.
Paolo compare di nuovo perché cercato e chiamato da Barnaba (At 11,25). Per il grande ed innovatore lavoro nella comunità di Antiochia Barnaba ha bisogno di collaboratori; ricorda che a Tarso si è ritirato qualche anno prima quello strano personaggio di fariseo convertito, molto dotto e preparato nel commento delle Scritture; decide di andarlo a cercare; lo trova e lo "chiama" al ministero pastorale nella Chiesa di Antiochia. Se sulla via di Damasco Paolo è stato chiamato a diventar cristiano, nell'incontro con Barnaba, per usare una terminologia posteriore, è stato chiamato a diventare prete.
Ma non basta. Il suo lavoro di animatore e formatore della comunità subisce un ulteriore cambiamento e si verifica quella che possiamo chiamare la terza vocazione di Paolo. Il libro degli Atti presenta l'episodio in modo sintetico e formulato con espressioni teologiche; ci è difficile ricostruire gli eventi, ma ne possiamo cogliere facilmente il senso. Narra Luca che, mentre i profeti e i dottori di Antiochia stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: "Riservate per me Barnaba e Saulo per l'opera alla quale li ho chiamati". Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li accomiatarono (At 13,1-3). La comunità in preghiera sente la vocazione missionaria; l'autentica comunione con il Signore spinge alla diffusione del vangelo e fa nascere il desiderio irresistibile di comunicare agli altri il prezioso dono ricevuto. Paolo e Barnaba sono chiamati a diventare missionari: la Chiesa prega su di loro e li manda come propri ministri; il loro servizio ecclesiale continua perfettamente fra "quelli di fuori". Da questo momento si può parlare chiaramente di "missione apostolica" o di "apostolato missionario" nel senso in cui lo intendiamo noi.
Il primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba, secondo il libro degli Atti (13,4-14,28), porta gli apostoli (è interessante notare che questo titolo non viene riservato ai Dodici mandati direttamente da Gesù, ma è applicato anche ai grandi "inviati" della Chiesa primitiva: cf At 14,4.14) in alcune cittadine dell'Asia Minore: in ognuna di esse si riproduce un analogo processo di evangelizzazione. Dapprima l'incontro con gli ebrei in sinagoga e la presentazione di Gesù come il Cristo partendo dal commento delle Scritture bibliche; di fronte all'abituale rifiuto di almeno una parte della comunità giudaica, gli apostoli si rivolgono ai pagani e scoprono, ogni volta con meraviglia, la grande disponibilità dei "lontani" ad accogliere la parola di Dio e la fede. In questi paesi nascono delle piccole comunità cristiane, non più legate al mondo giudaico, ma ormai autonome: si tratta di realtà nuove, i cui membri hanno le più disparate provenienze etniche e religiose. Ciò che li accomuna è la fede di Gesù Cristo.
Una simile situazione preoccupa la Chiesa di Gerusalemme e fa nascere una violenta controversia sulle condizioni da imporre ai pagani per la loro ammissione nella Chiesa. Paolo e Barnaba chiedevano loro solo di credere in Cristo, di pentirsi dei loro peccati e di ricevere il battesimo. A Gerusalemme, invece, un buon numero di giudeo-cristiani riteneva necessario diventare ebrei prima di poter essere cristiani, cioè ricevere la circoncisione e sottomettersi alla legge di Mosè. Una tale imposizione significava, nel ragionamento di Paolo, riconoscere che la fede nel Cristo non era sufficiente per essere salvi e significava inoltre forzare i convertiti ad isolarsi dal loro ambiente di origine per chiudersi in un sistema sociologico diverso. Una tale posizione avrebbe fatto della Chiesa cristiana semplicemente una setta giudaica.
A Gerusalemme, dopo il primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba, si riunì un'assemblea per dibattere questo problema (At 15,1-6) e, con l'appoggio di Pietro (At 15,7-12) e di Giacomo (At 15,13-21), fu deciso di non imporre ai convertiti la legge di Mosè. Non bisogna vedere in questa decisione il fatto determinante dell'apertura missionaria cristiana: semplicemente essa ha confermato nell'esistenza la "missione apostolica" e l'ha incoraggiata, riconoscendo la fede cristiana come l'unico fondamento della salvezza. Luca ha posto l'assemblea di Gerusalemme al centro degli Atti proprio per presentarla come la chiave di volta nell'impostazione della Chiesa primitiva.
L'unica testimonianza personale diretta dell'antica missione cristiana è quella dell'apostolo Paolo: dello stile e del metodo da lui seguito nel lavoro missionario ne parlano gli Atti degli Apostoli e soprattutto le sue stesse Lettere, autenteci strumenti di evangelizzazione. Ne risulta una figura altamente significativa, il modello apostolico per tutta la Chiesa (cf P.Iovino, "Paolo: esperienza e teoria della missione", in: Ricerche storico bibliche 2 (1990) 155-183; C.Ghidelli, "Lo stile e il metodo missionario di Paolo", in: Parole di Vita 35 (1990) 278-285).
Paolo rivela nei suoi scritti la chiara coscienza di essere stato chiamato da Dio per divenire l'"apostolo delle genti" (Rm 11,13; tale convinzione è espressa costantemente all'inizio delle sue lettere: Rm 1,1.5; 1Cor 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1; Ef 1,1; Col 1,1; 1Tim 1,1; 2Tim 1,1; Tt 1,1-3), l'incaricato di portare ai pagani il Vangelo di Gesù Cristo. Egli sa che Cristo ha operato per mezzo suo per condurre i pagani all'obbedienza della fede (Rm 15,18); è cosciente che il suo vangelo non è modellato sull'uomo, giacché lo ha ricevuto per rivelazione diretta di Gesù Cristo (Gal 1,11-12); ed è inoltre consapevole di essere stato scelto fin dal seno di sua madre e di aver ottenuto la rivelazione del Figlio di Dio allo scopo di annunziarlo in mezzo ai pagani (Gal 1,15-16): come a Pietro è stato affidato l'annuncio del Vangelo ai circoncisi, lo stesso Signore ha affidato a Paolo la missione verso i non circoncisi (Gal 2,7-9). L'operato di Paolo corrisponde perciò esattamente all'immagine che danno della missione apostolica le finali dei Vangeli di Matteo e di Marco: si tratta di un incarico affidato direttamente dal Cristo risorto e rivolto a tutte le genti.
Lo stile missinario di Paolo è esplicito nei suoi gesti personali che ne rivelano l'animo. All'inizio della missione è caratteristica la sua docilità a Colui che gli chiede di cambiare strada: unita al silenzio e alla fiduciosa attesa, questa docilità attiva e coraggiosa segnerà tutte le tappe del suo ministero. Una volta inserito nella missione, Paolo manifesta uno stile forte e deciso, resistente ad ogni attacco avversario, abile nell'evitare gli ostacoli, fiero delle sue prerogative umane messe al servizio del Vangelo. Pur nella sua fermezza, lo stile di Paolo è segnato dalla massima generosità e dalla massima disponibilità: si è fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero (1Cor 9,19).
Paolo si è messo in atteggiamento di ricerca e, come il suo Maestro, è andato a cercare gli uomini là dove vivevano; a tutti quelli che ha avvicinato ha sempre rivolto la stessa proposta della vita nuova in Cristo e dell'esperienza ecclesiale di questa novità possibile e gioiosa. Ma il suo metodo è stato segnato dal dialogo e dalla disponibilità ad incontrare i suoi ascoltatori nel modo e coi mezzi a loro più congeniali. Sempre però il suo annuncio è stato innovativo e talvolta anche dirompente: voleva portare qualcosa di nuovo nella mentalità e nella vita dei suoi interlocutori; la novità di Cristo che aveva sconvolto la sua esistenza irrompe continuamente nella sua predicazione ed entra nella vita degli uditori e li coinvolge.
Il contenuto della sua grandiosa opera missionaria è proprio la condivisione della propria fede al di là di ogni barriera nazionale e di ogni struttura ideologica o religiosa: la novità di Cristo che lo ha trasformato lo ha reso capace di trasformare.
Ritornano a questo punto molto appropriate le parole di Giovanni Crisostomo: "Non dire: mi è impossibile trascinare gli altri; se sei cristiano, è impossibile che questo non succeda". Come Paolo, infatti, il cristiano è una persona conquistata da Cristo (Fil 3,12) e, come l'indemoniato guarito da Gesù, finalmente libero e sano, contento del grande dono ricevuto, sente forte e insistente l'invito del Maestro: "Va' nella tua casa, dai tuoi, annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti ha usato" (Mc 5,19).
Tutta la comunità cristiana di oggi, come la primitiva assemblea di Gerusalemme, ripete con coraggio e creatività agli uomini di oggi: "Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato" (At 4,20). La fede si rafforza donandola ed è urgente per la nostra Chiesa moderna continuare a vivere con rinnovato entusiasmo l'evangelizzazione dei tanti "lontani" che abitano vicino a noi: "Non è infatti un vanto per me predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!" (1Cor 9,16).
[Capitolo I]: Antico Testamento
[Capitolo II]: Gesù Cristo
[Capitolo III]: Chiesa Apostolica
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Settembre 1996