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I MOLTI VOLTI DELLA MISSIONE NEL NUOVO TESTAMENTO
Ritorno alle radici della missione
(David Bosch)

Introduzione
I. Come Gesù ha vissuto la missione
II. La missione in Matteo
III. La missione in Luca
IV. La missione in Paolo

Nelle sue lettere, scritte 15-20 anni prima del Vangelo di Marco e circa 30 anni prima di Matteo e Luca, Paolo offre la visione più profonda e più sistematica della missione. Perché Paolo è innanzitutto un missionario. La sua teologia non è una costruzione astratta, non preesiste alla sua attività missionaria, ne è il ripensamento: essa è la lettura delle realtà che incontrava, alla luce dell'esperienza iniziale che aveva segnato la sua vita e la sua visione del mondo.

Non potendo presentare in breve spazio tutti gli aspetti della teologia e prassi missionaria di Paolo, ci fermeremo solo sul "fine" e sulle "motivazioni" della sua missione.


Nelle prime righe della lettera ai Romani, Paolo riassume l'obiettivo del suo apostolato. È stato "scelto per annunciare il Vangelo" e ha ricevuto da Gesù Cristo "il dono di essere apostolo per condurre all'obbedienza della fede i popoli pagani" (Rom 1,1.5). È stato incaricato di proclamare che Dio ha effettuato la riconciliazione del mondo con sé e anche fra di noi. Per questo percorre tutta l'area mediterranea. Dove arriva, fonda delle chiese: saranno, spera, delle manifestazioni della nuova creazione, capaci di resistere alle potenze di questo mondo.

In Cristo, Dio si è riconciliato non solo con la chiesa, ma con il mondo (2Cor 5,19): è questo che è incaricato di proclamare. Per quanto sia importante agli occhi di Paolo, la chiesa non è il fine ultimo della missione. Vita e azione della comunità cristiana sono intimamente legate al piano di Dio per la redenzione del mondo. "L'universalità della chiesa, corrisponde all'universalità del compito apostolico, che consiste nel proclamare la vittoria salvante di Dio nei confronti della sua creazione" (Beker). Cristo risorto è stato costituito Signore di tutti (Fil 2,9-11).

La radice della concezione universale di Paolo sulla missione è una fede personale in Gesù morto e risorto, Salvatore del mondo: è nella sua comunione che si è chiamati a vivere (1Cor 1,9). La missione di Paolo si fonda non su promesse incerte, ma su una soluzione già data: sul fatto, cioè, della salvezza già offerta da Dio all'umanità. Non è che in retrospettiva che Paolo ha immaginato "come sarebbe stata" la vita senza Cristo: solo alla luce dell'esperienza dell'amore senza condizioni di Dio, egli ha potuto rendersi conto del terribile abisso in cui sarebbe caduto, senza Cristo. Quando scrive "noi sappiamo, fratelli amati da Dio, che lui ci ha scelti" e "Gesù ci libera dalla collera che viene" (1Tess 1, 4-10), confessa di essere stato da Dio salvato grazie a Cristo, non pronuncia un verdetto su quelli che non credono. In altre parole, Paolo non si sofferma sulla sorte dei non credenti: preferisce insistere sulla soluzione già data. Ne ha fatto profonda esperienza: sa che il Vangelo, che ha la missione di proclamare, è l'amore senza condizioni e l'accoglienza immeritata compiuta da Dio. Il suo Vangelo è un messaggio positivo.

LE MOTIVAZIONI MISSIONARIE DI PAOLO

Michael Green ha notato che la chiesa primitiva era mossa da tre motivazioni missionarie fondamentali, particolarmente evidenti in Paolo: la riconoscenza, il senso di responsabilità, la preoccupazione. Anche se non è possibile una loro separazione, talmente sono intrecciate, seguirò anch'io queste tre motivazioni, invertendo però il loro ordine.

La preoccupazione di Paolo

Come i giudei del suo tempo, Paolo ha un giudizio decisamente negativo sul paganesimo: richiama i suoi vizi e, soprattutto, le sue idolatrie: sono prodotti dello spirito umano e finiscono sempre per asservire (1Cor 12,2). Egli reagisce contro questa idolatria insidiosa e, fedele alle sue origini giudee, proclama le esigenze di un Dio geloso, che vuol essere servito senza patteggiamenti con altri signori: "Voi vi siete rivolti verso Dio, voltando le spalle agli idoli, per servire il Dio vivente e vero" (1Tess 1,9). Sappiamo questo non per deduzione solamente, a partire dal creato, o grazie ai profeti, ma soprattutto perché Dio ha rivelato se stesso attraverso suo Figlio (Gal 4,4).

È in questo quadro che occorre situare l'impegno personale di Paolo. Per lui, fuori di Cristo l'umanità perde assolutamente ogni speranza, è votata alla perdizione (1Cor 1,18; 2Cor 2,15). Essa ha un bisogno urgente di salvezza (Ef 2,12). Per questo, deve essere proclamato a tutti che "Gesù ci libera dalla collera che viene". Si sente ambasciatore di Cristo: "In nome di Dio, ve ne supplichiamo, lasciatevi riconciliare con Dio" (2Cor 5,20).

Ma la sua grande preoccupazione non è predicare questa "collera che viene", ma il messaggio positivo: la salvezza attraverso Cristo e il trionfo imminente di Dio. Il Vangelo è una buona novella, rivolta a gente che ha peccato volontariamente, che è senza scuse e che merita il giudizio di Dio (Rom 1,20-25), ma a cui Dio, nella sua bontà, offre la possibilità di pentirsi (Rom 2,4). La salvezza, per Paolo, è l'esperienza d'una liberazione immeritata, grazie all'incontro con il Dio unico, Padre di Gesù Cristo. Paolo ha, dunque, la missione di condurre gli uomini alla salvezza in Cristo. Ma il suo obiettivo finale non è centrato sull'uomo: è di preparare il mondo in vista della gloria di Dio che viene (1Tess 1,9) e per il giorno in cui tutto l'universo lo loderà, nella comunione piena di vita con lui.

Il senso di responsabilità

La sollecitudine di Paolo verso i "pagani" si manifesta nella coscienza acuta dell'obbligo, che sa di avere, di proclamare loro il Vangelo. È una anangkê, una necessità ineludibile. "Guai a me se non annuncio il Vangelo" (1Cor 9,16). Nella lettera ai Romani (Es 1,14), Paolo afferma di sentirsi in debito, debitore: la fede in Cristo crea un duplice indebitamento, verso Cristo che ci ha gratuitamente accolti, e verso tutti coloro a cui è inviato. Nella seconda lettera ai Corinti usa un altro termine per dire ciò che lo spinge all'annuncio, il timore del Signore: non quello che paralizza, ma quello di un amico o di un servitore fedele che non vuole deludere la persona che ama. Per questo "si fa servo di tutti, per guadagnarne il più possibile" (1Cor 9,19-23).

Per cogliere come Paolo sentiva la responsabilità missionaria, propria e degli altri cristiani, è utile richiamare quanto dice a proposito del comportamento dei credenti verso "quelli di fuori": devono innanzitutto prendere coscienza di costituire una comunità di natura speciale, differente; chiama i cristiani: scelti, amati, santi (= messi da parte per), conosciuti da Dio. Inoltre, ricorda spesso che la testimonianza verso "quelli di fuori" esige una condotta esemplare: una condotta di rispetto (1Tess 4,11) e di amore concreto verso tutti (1Tess 3,12), che non solo attiri stima e ammirazione, ma addirittura inviti ad entrare nella comunità.

In altre parole, la caratteristica delle prime comunità cristiane è il comportamento missionario. Ma questa dimensione si esprime non tanto con un'attività missionaria specifica (Paolo ha pochi richiami in proposito, ne ha di più la 1ª lettera di Pietro), quanto con lo stile di vita "attrattivo" delle piccole comunità: con le relazioni reciproche di attenzione, solidarietà, ospitalità, intense e ricche di emotività (nella sola 1ª lettera ai Tessalonicesi, chiama, almeno 18 volte, i cristiani "fratelli"), di integrazione sociale tra ricchi e poveri (1Cor 10-11: il comportamento dei ricchi entra in collisione con il modo con cui Paolo concepisce la comunità cristiana): l'opera di riconciliazione realizzata da Cristo dà vita ad un nuovo corpo, in cui le relazioni umane sono trasformate.

Le comunità paoline hanno una forte coscienza di ciò che le distingue dal mondo esterno, Paolo ricorda loro continuamente quello che hanno di unico. Ma, anche se hanno la coscienza di essere un gruppo distinto, non si isolano: proprio questa coscienza le spinge a stare con gli altri: sono nel mondo e per il mondo. Sono "un segno" precursore dell'alba del mondo nuovo, che attesta, nella misura della loro vita trasformata, la validità della speranza cristiana: Dio trasformerà questo nostro mondo.

Il senso di riconoscenza.

Siamo nel più profondo della motivazione missionaria di Paolo. Se va fino alle estremità della terra è perché è stato ammaliato dall'esperienza che ha fatto dell'amore di Dio in Cristo Gesù, "il Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,20). Come ci mostra il testo classico 2Cor 5, Paolo ha preso coscienza che l'amore di Dio costituisce il vero movente della missione: "Avendo conosciuto… cerchiamo di convincere gli uomini" (5,11); "l'amore di Cristo ci spinge" (5,14).

Se, dunque, Paolo proclama il Vangelo a tutti, non è in primo luogo perché vuole salvare chi è perduto o perché ne sente l'obbligo. Il motivo di fondo è perché ha coscienza che gli è stato fatto un privilegio, "ha ricevuto la grazia di essere apostolo…" (Rom 1,5; 15,15). Privilegio, grazia, riconoscenza: sono i concetti che Paolo usa quando parla del suo compito missionario. La coscienza di sapersi debitore si traduce immediatamente in un sentimento di riconoscenza. Ed è facendosi missionario presso i giudei e i pagani, che Paolo esprime la sua riconoscenza.

Per parlare del "debito di riconoscenza", suo e dei fratelli e sorelle nella fede, Paolo usa a volte il linguaggio cultuale (Rom 15,16; 12,1; Fil 2,17; 4,18). Dietro queste espressioni c'è l'idea di un sacrificio o di un'offerta fatta per amore, a causa dell'amore di Dio manifestato in Cristo, di cui Paolo e le sue comunità sono i beneficiari. Un amore che "ci ha riconciliati con Dio mentre ancora gli eravamo nemici" (Rom 5,10): è questo amore incredibile e senza misura, che Paolo e le sue comunità hanno scoperto. Il coraggio di essere differenti dalla società che li circonda, nella vita di tutti i giorni, in vista della salvezza degli altri: ecco la risposta all'immenso "debito di riconoscenza".


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Settembre 1998